Questo Papa non ci piace
Cinque anni fa moriva Mario Palmaro, uno dei giganti. Riporto qui l’articolo che fu pubblicato sulla prima pagina de il Foglio ( all’epoca era un gran giornale) a doppia firma, Gnocchi e Palmaro, e che costò ai suoi due autori l’uscita dalla “società civile”.
Questo Papa non ci piace – di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.
Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.
Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a “Civiltà Cattolica”.
Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. È tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.
Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.
A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della Veritatis splendor, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.
Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’“Osservatore Romano”, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione Unigenitus Dei Filius in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel Sillabo, un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla Pascendi dominici gregis 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al Denzinger non farebbe male.
Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al cattolicesimo.
Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla “Civiltà Cattolica”. “Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.
Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a “Civiltà Cattolica” dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non c’era, ma per averlo inventato.
L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.
Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea.
Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.
Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura re
torica, e a dimenticare la parte sostanziale”.
Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.
Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.
Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.
Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.
È l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.
Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo vicario.