Istruzioni per diventare infrangibili
Il pezzo pubblicato su la verità. Lo pubblico oggi, che notizie terrificanti arrivano dalla Grecia e altre notizie terrificanti della nigeria e dal Nicaragua, perché noi siamo esseri umani, siamo in grado di affrontare il dolore. Per prima cosa impariamo ad affrontare la normalità. Si è appena suicidata a Parigi una giovane donna 31enne, con una salute perfetta e un’ottima situazione economica: la fondatrice delle femen. Quindi pubblico oggi questo pezzo e , non appena lo scrivo, pubblicherò quello più importante: come resistere in mezzo all’orrore
Un libro interessante sul tema della felicità è il mitico libro “Istruzioni per rendersi infelici” di Paul Watzlawick (Feltrinelli). Quando era uscito me ne avevano regalato una copia.
Perché tediare un professionista con un manuale per dilettanti? Sono stata per decenni un professionista nella solida e creativa arte di rendere un inferno la mia vita e quella di tutti quelli che avevano avuto l’idea di farne parte. L’infelicità è stato lo sport e lo spot della mia generazione, praticata e reclamizzata. Abbiamo dovuto sforzarci: non ci sono più guerre mondiali, le grandi carestie e le grandi epidemie sono sospese e moriamo pochissimo. I quattro cavalieri dell’apocalisse sono in ferie, eppure lo sconforto, lo scontento e l’astio dominano incontrastati.
La nostra realtà emotiva domina la nostra mente. Se siamo in ottima salute, viviamo all’interno di una democrazia, abbiamo un lavoro e anche un’auto, e siamo in collera con marito/madre/sorella/suocera/collega/capufficio/ altro, tutta la nostra emotività sarà scontento e astio. E sconforto.
“Un’altra giornata lungo cui strisciare”. È una battuta di Charlie Brown, personaggio a fumetti che si muove in un mondo senza carestia e senza guerra, bambino con testa sferica, proprietario del cane Snoopy, esempio perfetto di infelicità cronica e inutile, di incapacità a creare gioia, non a caso un successo mondiale.
Noi siamo dei professionisti sul rendersi infelici, ed essere infelici è considerato un merito, una prova di intelligenza. Abbiamo creato l’infelicità gratuita, autoindotta. Negli ultimi 60 anni nel mondo occidentale, il primo periodo dall’inizio del mondo senza guerre che interessassero le nostre case, senza fame, senza più le grandi epidemie, la depressione, il verme strisciante che mangia le vite da dentro, è aumentata del 1200%. È nato il suicidio assistito per gente sana. Lo praticano nella civilissima Svizzera. Qualcuno si fa uccidere visto che il male di vivere gli ha mangiato l’anima come le tarme mangiano i golf di lana, e non ha nemmeno gli attributi per ammazzarsi da solo. Siamo la prima epoca dall’inizio del mondo che ha beatificato la vigliaccheria e che disprezza il coraggio, e che si stupisce ancora che senza coraggio non sia possibile vivere e costruire.
Il male di vivere ti ha mangiato l’anima. L’anima smangiucchiata come le unghie può essere ricostruita, sempre come le unghie, ma anche per l’anima come per le unghie ci va l’esperto.
Per le unghie basta l’esperto, per l’anima ci va anche l’apposito farmaco, l’antidepressivo: senza prozac e psicoterapia è impossibile guarire, cinguettano i giornali femminili, internet, e le associazioni degli psichiatri sponsorizzati da produttori di farmaci. La parola impossibile risuona come una campana a morto. Non ci proviamo nemmeno a guarire da soli. Forse potremmo guarire nella maniera “sbagliata”, sarebbe un errore provarci: guarire è impossibile.
L’incomunicabilità.
Becket che aspetta Godot.
Che strazio.
E se l’anima smettessimo di farcela mangiare? Godot andiamo a cercarcelo, chi cerca trova, bussate e vi sarà aperto.
Forse se invece che stare ad aspettarlo come degli imbecilli, Godot ce lo andassimo a cercare noi, alla fine lo troveremmo. E per cercarlo avremmo fatto un viaggio straordinario, scoprendo paesaggi incantati. Nemmeno tanto alla fine. Forse è possibile trovarlo già all’inizio, nel luogo dove sempre si trova. Forse c’è sempre stato e siamo noi che abbiamo sprangato gli occhi per non vederlo, salvo piangerne poi l’assenza, disperati. L’infelicità è stata chiamata depressione, dichiarata una malattia, ha invaso il mondo. Il nostro almeno. E la causa di questo disastro, la depressione che è aumentata del 1200% negli ultimi 60 anni?
La depressione è in parte genetica, ci spiegano, per il resto è dovuta al “contagio” dei depressi genitori che hanno uno stile depressivo, visto che la stragrande maggioranza dei pargoli è allevata dai suoi genitori biologici.
Sicuramente è così, ma questo non basta a spiegare come sia aumentata del 1200%?
Per ragioni oggettive? Evidentemente è stata dura essere la prima generazione senza guerre mondiali e senza epidemie catastrofiche. La prima generazione che ha sofferto la fame solo perché Cosmopolitan e altri periodici di pari caratura intellettiva hanno lanciato diete folli e ridicole.
Dato quanto sopra, possiamo considerare assodato che l’infelicità, o depressione se il termine vi risulta troppo romantico o letterario, non c’entri un accidenti con i quattro cavalieri dell’Apocalisse, la fame, la guerra, l’epidemia e la morte, perché persino quando raccattavamo tutte le mattine gli sterminati dalla peste nera, in un’Europa affamata e invasa dagli eserciti, eravamo meno astiosamente disperati di quanto siamo adesso. Persino quando era uso comune che i genitori fracassassero i figli di botte, li vendesse alle miniere a quattro anni oppure allo spazzacamino a tre, la gente non soffriva di depressione. In Africa e in Asia, popolazioni poverissime in lande desolate dove i quattro cavalieri dell’Apocalisse sono installati stabilmente a fare campeggio, tra una catastrofe e l’altra, sorridono ben più di noi e cercano di godere le poche briciole che riescono a strappare a una vita atroce.
Quindi le ragioni oggettive non c’entrano. La nostra mente ha perso qualcosa che prima aveva e che ora deve ricostruire. Che ci è successo in questi ultimi decenni?
Abbiamo perso la religione, abbiamo perso Dio, siamo diventati postcristiani. Dal puto di vista biochimico è una perdita d endorfine , che si producono mente preghiamo, da un punto di vista emotivo abbiamo rinunciato al porta di figlio di Dio per diventare un bambino di più all’orfanotrofio.