Siamo fatti per amare
Ormai anche in Italia nelle facoltà di sociologia, per esempio quello di Sassari o quella di Torino, c’è la cattedra dei cosiddetti Genders studies, dove tizi e soprattutto tizie percepiscono lo stesso stipendio di un docente di anatomia umana normale oppure diritto privato per insegnare impalpabili scempiaggini contrarie alla biologia e a qualsiasi forma di buonsenso. Ci sono storie atroci e dolenti di giovani donne che mostrano il torace con le cicatrici della mastectomia bilaterale, l’amputazione delle mammelle, fatta perché come molte ragazzine a loro è scappato di dire ”Vorrei essere un maschio”. I bambini hanno come prevalente l’emisfero destro, non hanno il senso della realtà. Vorrei essere un maschio ha lo stesso peso di vorrei volare come Superman. Nessuno butta un bambino dalla finestra se afferma di voler volare, ma sono amputate le mammelle a ragazzine, sfigurate dall’acne e dalla calvizie per il testosterone. “Come hanno potuto gli adulti farmi questo?”, domanda una di loro. Le allegra fanciulle di “Non una di meno”, si dichiarano costanti vittime del patriarcato cristiano mentre inneggiano alla ferocia di quello islamico e agli stupri del 7 ottobre. Il film Olivia che mostra la meraviglia della vita prenatale, è violentemente boicottato. Con la potenza di un pugno sul tavolo a far saltare un brutto castello di carte orrende è arrivata l’affermazione del presidente Trump che, come scritto su qualsiasi libro di biologia, e come già noto alla buonanima di Noè, siamo maschi o femmine. E a questo punto è fondamentale la risposta alla domanda: perché siamo maschi o femmine? Per completarci, per amarci gli uni con gli altri, per far nascere i bambini e per amarli. In un’epoca di negazione di logica e di odio presentato come benemerenza civica, è fondamentale il libro “Siamo fatti per amare” di Rachele Sagramoso, ostetrica, scrittrice, blogger, sposa e madre di 7 figli (Editore: D’Ettoris gennaio 2025). Il libro parla di fisiologia, quindi di realtà e logica, e anche di amore perché la fisiologia spiega la logica della creazione e la creazione rappresenta l’amore di Dio. Nasciamo maschi e femmine per diventare padri e madri. Una volta rinnegato questo, si passa automaticamente non solo alla beatificazione dell’aborto e alla vendita di bambini, ma anche all’intercambiabilità dei sessi. Essere donna è ridotto allo stereotipo femminile, trucco e tacchi, eventualmente mastoplastica, travestimento che anche un uomo può esibire. Il libro difende il diritto del neonato umano alla vicinanza del corpo della madre, quel corpo che lo ha contenuto per 9 mesi (7 nel mio caso), e di cui lui ha un bisogno totale. “Il diritto del neonato al suo spazio”, è un concetto altrettanto folle del “diritto del bambino a una vita sessuale”. Allontanare il neonato dalla madre, è un’aggressione a entrambi. In tutta la storia dell’umanità i neonati sono sempre stati vicino alla mamma, con le uniche poche eccezione degli sfortunati figli dei ricchi che stavano con la balia. Il lettone di papà e mamma è per il bimbo il paradigma della sicurezza. La mamma è fornita di mammelle e il neonato ha bisogno di mammelle. Tenere mammelle e neonato nello stesso posto, nella stessa stanza o magari nello stesso letto, semplifica la vita. Il neonato piange perché è disperato. La mamma non è vicino a lui. Il neonato piange perché è terrorizzato. Non distingue i mobili della cucina dal Cervino: non è in grado di capire che non ci sono predatori. Nasce con un’unica competenza: un pianto disperato che attiri la mamma, il corpo che lo ha contenuto, da cui non deve essere allontanato. Importantissima nel libro l’ostetricia. Con uno stile estremamente potente che mischia teoria, ricordi e testimonianze racconta la storia della violenza ostetrica, di come mal pratica e scortesia, se non aggressività possano rendere il parto un incubo, oltre che più pericoloso. Se la mamma è messa in ulteriore stress sia lei che il piccolo condividono gli stessi ormoni da stress che non fanno bene a nessuno dei due. È possibile ipotizzare che tra i numerosi motivi di una natalità sempre più bassa ci sia il desiderio di non ripetere un’esperienza disastrosa. Ho avuto la fortuna di un parto facile e molto ben seguito in un ambiente sereno e competente all’Ospedale di Moncalieri ed ero convinta che le brutte storie fossero scomparse da decenni. Non è così.
Fino alla metà dell’Ottocento, le donne partorivano con le ostetriche, solo quelle più ricche potevano permettersi l’assistenza di un medico. In entrambi i casi c’erano poche garanzie, tuttavia esisteva una grande differenza: i medici facevano le autopsie e poi, senza lavarsi le mani, visitavano le partorienti che, a causa della mancanza di igiene, morivano di febbre puerperale, mentre le donne che venivano assistite nei conventi di suore o in casa dalle ostetriche, sopravvivevano. Il dottor Grantly Dick Read fu uno dei primi ginecologi a evidenziare gli aspetti positivi delle donne che potevano partorire seguendo il ritmo del proprio corpo, cioè con un parto naturale. Già negli anni ’30 scrisse che una donna assistita con freddezza e distacco poi mette al mondo meno figli di quelli che vorrebbe. Fu contrastato dai movimenti femministi perché affermò che le donne sono fatte per essere madri, sempre che gli sia fatto piacere essere madri. Oggi la formazione delle ostetriche è estremamente medicalizzata. A partire dagli anni ’60, la donna viene vista come un mezzo per portare al “progresso, si assiste quindi alla creazione di veri e propri “partifici”, reparti dove il parto era gestito come un prodotto in serie, e alla diffusione dell’allattamento artificiale dato che le donne dovevano poter tornare a lavorare il prima possibile. Nel 1978 venne approvata la legge sull’aborto. Alla fine degli anni ’70, con la chiusura delle condotte ostetriche, le ostetriche entrarono come ausiliare negli ospedali dove la responsabilità era del medico. Secondo Rachele Sagramoso, da questi presupposti discende il problema dell’assistenza alla gravidanza ipermedicalizzata e ipoempatica. Bisogna attendere la fine degli anni ’80 per vedere sorgere i primi movimenti desiderosi di restituire un equilibrio all’assistenza alla nascita, fino ad arrivare agli anni ’90 con la promozione dell’allattamento al seno e l’assistenza alla nascita, ma la violenza ostetrica continua ad esistere. L’Autrice sottolinea il silenzio del mondo cattolico sull’argomento e come questo si sia fatto sottrarre il termine “violenza ostetrica” dal movimento femminista. L’assistenza al parto e l’allattamento non sono contemplati come diritti riproduttivi, a differenza dell’aborto e l’uso degli anticoncezionali. Nel libro si sottolinea l’importanza fondamentale per le donne di essere assistite in maniera gentile al parto, in modo da avere un ricordo positivo di quella nascita. Il diritto riproduttivo delle donne è conoscere la loro fertilità, riconoscere il loro bambino come essere umano che va protetto, un diritto riproduttivo delle donne è essere trattate con cortesia quando mettono al mondo un essere umano. Se l’operatore sanitario che assiste una donna in travaglio, ha a cuore quella donna e il suo bambino, il suo approccio sarà differente. Uno dei mezzi per cercare di ridurre la violenza ostetrica è aumentare la consapevolezza e la competenza delle donne perché nel momento in cui una donna delega la sua salute e quella di suo figlio agli operatori sanitari, questi si sentono investiti di una responsabilità così grande che li porta a decidere loro e la donna deve stare zitta e obbedire, mentre una comunicazione alla pari libera l’operatore sanitario da un peso. Le donne gravide sono diventate pazienti da quando i parti si sono spostati negli ospedali, adesso gli ospedali sono diventati aziende quindi l’Autrice si chiede perché non vengano fatti dei questionari di gradimento a tutte le donne e non vengano dati incentivi economici agli operatori che sono risultati più empatici. Se vogliamo che le donne mettano al mondo i bambini, deve essere bello partorire. E può essere bello, lo posso testimoniare.