Vizi capitali e di entità minore.
I sette peccati o vizi capitali dal punto di vista teologico sono comportamenti che portano alla perdita dell’anima, a giocarsi cioè l’eternità. Dal punto di vista biochimico possono essere considerati come comportamenti disfunzionali, varia dire non fisiologici, che portano a una alterazione stabile dei neurotrasmettitori così di creare dipendenza, e distruggere quindi la libertà dell’individuo. La condanna ferma dei vizi capitali è quindi una forma di misericordia. L’ira di Dio fa parte della Sua giustizia e la Sua giustizia fa parte della Sua misericordia. Un genitore che impedisca al proprio bambino di cinque anni di giocare con i fiammiferi e con le prese elettriche i sta mostrando il suo amore. Una volta che i neurotrasmettitori siano stati alterati, la compulsione diventa dipendenza e la libertà dell’uomo è annientata. Per riconquistarla occorreranno lunghe e penose disintossicazione e una volontà di acciaio. Per evitare di caderci sarebbe bastato restare aggrappati alla fisiologia con una cozza sullo scoglio. Il vizio è la negazione della fisiologia, è patologia. La fisiologia e più divertente della patologia. I vizi non sono il piacere, sono la negazione del piacere. Epicuro ci parla di piaceri magnifici: prendere in braccio un bimbo che ride, sentire il profumo del pane appena sfornato, guardare il mare con tutta la sua magnificenza. Mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete, desiderare un corpo in un amore pieno di tenerezza, sono piaceri infiniti di cui i vizi capitali ci allontanano inesorabilmente. La severa lista dei sette peccati serve a salvarsi l’anima e ad evitarci l’inferno in terra.
Tornando alla metafora del genitore, un genitore che non solo non impedisca con assoluta fermezza al suo bambino di giocare con fiammiferi e prese elettriche, ma addirittura lo incoraggi può essere considerato serenamente un genitore pessimo, esattamente come pessima e la nuova chiesa 2.0, sprofondata a zucchero filato, terrorizzata dai visus, ma non dal peccato.
La parola vizio viene dal latino vitium, e indica sia un difetto fisico sia la corruzione dello spirito che lo svuota dalle virtù. Dobbiamo l’elenco a un monaco Evagrio Pontico, vissuto nel IV secolo, uno dei padri del deserto che visse e pregò nel Sinai. Le sue opere sono state conservate nella biblioteca del monastero fortezza di Santa Caterina del Sinai, costruzione di struggente e aspra bellezza che miracolosamente continua a sopravvivere al tempo e al terrorismo. Anche se la sua corrente di pensiero fu poi condannata al concilio di Costantinopoli due secoli dopo la sua morte, la lista dei suoi otto peccati, che lui chiamava otto pensieri, e arrivata fino a noi. Nell’elenco primitivo esisteva la tristezza, e poi è stata inclusa nell’accidia, esisteva la vanagloria, che poi è stato accorpata nella superbia e, incredibilmente, mancare più importante: l’invidia. Gli altri sono ira, lussuria, avarizia, e gola. Si chiamano capitali perché da loro derivano tutti gli altri. Ognuno di loro è una deformazione patologica di una struttura assolutamente fisiologica, di un sistema motivazionale innato, geneticamente predisposto a salvare la nostra vita e indirizzarla.
La maggioranza delle azioni umane, salvo poche eccezioni, ha una motivazione emotiva, non una motivazione razionale. Questo il motivo per cui molte delle nostre azioni sono fondamentalmente irrazionali, prive di logica. Una delle emozioni più potenti, più tragicamente infernali, è l’invidia. Deriva da invidere, composto da in negativo e videre guardare. Può voler dire sia guardare male, guardare con uno sguardo obliquo, malevolo, ma anche non guardare. L’invidioso non vuole vedere i successi altrui. L’invidia è la deformazione patologica della competitività. La competitività fa parte della normale fisiologia umana, che è un essere sociale obbligato. Noi non riusciamo a sopravvivere lontano dagli altri. Sia quello dell’eremita che quello del naufrago sono ruoli estremi, l’uno volontario l’altro involontario, che non sempre permettono la sopravvivenza. Noi abbiamo quindi questo potentissimo istinto che si chiama affiliazione al gruppo. Quando il gruppo ci respinge la nostra stessa sopravvivenza può essere messa a rischio. Essere respinti dal gruppo è un dolore, mediato biochimicamente dalla produzione dell’ormone cortisolo e dall’abbattimento del neurotrasmettitore serotonina. Stiamo malissimo e si deprime il nostro sistema immunitario. Insieme all’affiliazione al gruppo esiste quindi anche la competitività, perché gruppi devono avere una strutturazione gerarchica per essere vitali. La competitività ci spinge a competere e a voler vincere. Vincere è più piacevole che perdere. Se in tutte le creature umane c’è l’istinto alla competitività, tutti competeranno per il ruolo di capo. Il risultato è che diventerà capo quello con maggiori capacità e competenze, e tutti stanno meglio. La competitività quindi deve essere un mezzo, per raggiungere il migliore equilibrio possibile, per la collettività e quindi per il singolo che ne faccia parte. La competitività ci spinge a essere migliori, a studiare nell’immediata ottica del voto quello che ci servirà a non essere barbari e apprezzare la bellezza. La competitività, il desiderio di essere trai primi o, comunque, il desiderio di non essere ultimi, ci spinge all’autodisciplina e al senso del dovere, e quindi al senso dell’onore, che sono i caposaldi su cui si reggono la società e, ovviamente, i singoli. Deve essere un mezzo. Nel momento in cui diventa un mezzo, la mente si deforma e l’anima si danna. L’invidia è un po’ più facile dove esista una mente rattrappita, un senso del sé azzoppato perché forse i genitori hanno amato meno di quanto si sarebbe voluto, forse erano troppo distratti dal lavoro o dai social per dare tutte le attenzioni necessarie, e come ogni altra ferita questa è una ferita che si risolve. Occorre determinazione. Occorre sapere che l’invidia è un peccato, e correggere la mente. Noi siamo in grado di farlo, il processo è ovviamente più facile se siamo credenti, e molto più facile se siamo molto credenti, se abbiamo chiaro in mente che ognuno di noi è stato creato dal cielo unico e inimitabile perché trovi la sua unica e inimitabile strada. Se si cede all’invidia, l’invidia crea una dipendenza basata sul dolore a ogni successo altrui, e sul desiderio di evitare quel dolore. L’invidioso ha una sola posizione possibile: il più bello del reame. Tutte le altre sono dolore, il dolore urente dello scorticato. Il primo delitto di cui ci parlano è quello di caino. L’invidioso ha paura che il fratello sia più amato.