Selfie, piccoli narcisi crescono, piccoli narcisi muoiono.
Nei secoli passati nobili e ricchi potevano commissionare un ritratto. Con la fotografia anche i meno abbienti potevano avere un’immagine di sé. Il cellulare con la possibilità di fotografare in entrambi i sensi ha creato la possibilità di fotografarsi da soli, i social hanno dato la possibilità di diffondere l’immagine. Una tentazione che può diventare micidiale.
Sono qualche centinaia le persone che si sono ammazzate per scattarsi selfie in situazioni pericolose. Il numero è sicuramente piccolo, certo, ma nello stesso periodo le persone uccise da squali sono state una cinquantina: i selfie uccidono più degli squali. A questo si aggiunga che, contrariamente al numero delle vittime di squali, il numero delle vittime di selfie è enormemente approssimato per difetto, perché per molti incidenti non sempre si riesce a ricostruire la dinamica, e molti incidenti mortali restano orfani dell’informazione che sono stati causati da un selfie.
È molto più pericoloso quindi il cellulare di una simpatica banda di squali martello.
L’India è in testa alla classifica, con oltre il 60% del totale. Si tratta di selfie poveri: ci si sdraia sui binari e si fa la foto o la diretta. Il fatto è che, perché il tutto non sia insulso, occorre prendere nell’inquadratura sé stessi e il treno che sta arrivando, e non tutti hanno lo scatto sufficiente per levarsi in tempo. Il secondo posto è della Russia, dove hanno perso la vita una ventina di persone, precipitando da ponti o grattacieli.
Una coppia si è schiantata sugli scogli davanti agli occhi dei loro figli bambini: avevano scavalcato la recinsione del faro per poter fare una foto di se stessi con un’inquadratura migliore.
Noi siamo di fronte a qualcosa che non era mai esistito prima. Il nostro cervello non è attrezzato ad affrontare internet, la possibilità di essere visti e approvati. L’approvazione genera piacere, un piacere basato su due neurotrasmettitori importanti dopamina ed endorfine. Tutte le volte che qualcuno ci mette un like su Facebook, Tweet, Instagram o You tube, il nostro cervello sussulta in una scintilla di piacere, produce dopamina e la dopamina diventa una tossicodipendenza. La dopamina da like è come la dose che ti passa il pusher, e come la dose dà assuefazione, non se ne può più fare a meno e ci vogliono dosi sempre più forti. Per avere l’approvazione altrui può essere necessario vincere le olimpiadi e prendere un Nobel. Oppure dare il brivido di assistere a una morte vera, la propria. Quando la foto del gatto è inflazionata si arriva alla foto sul passaggio a livello con una benda sugli occhi. Il cervello umano è basato sull’imitazione e imita il cinema. Anche perché al cinema sono tutti effetti speciali, il selfie su Facebook è vero; dà il vero brivido e permette di competere con registi e produttori.
Ogni creatura umana ha bisogno di credere il se stessa. La fede in se stessi ci viene dalle relazioni.
Per i credenti è più facile. Essere “figli di Dio” permette, da fermi, senza aver dovuto scalare l’Everest o traversare l’Amazzonia a piedi, un soddisfacente livello della soddisfazione di sé, emozione che i giornali femminili hanno classificato come autostima. Ho combattuto la buona battaglia, non ho perso la fede, sono arrivata alla fine: posso andare a letto contenta. La relazione con Dio è una strada privilegiata per aggiustarsi i neurotrasmettitori. .Notare che la battaglia bisogna combatterla, non vincerla. L’ha già vinta un Altro, anche se ora questa vittoria non si manifesta. È evidente che nessuno può vincerla, ma è evidente che tutti devono combattere. Siamo soldati semplici, il Generale è un Altro. In questa triade, combattere la buona battaglia, non perdere la fede, e arrivare fino alla fine, scompare il rischio di essere un fallito. Ripeto: non tocca a noi vince la battaglia, dobbiamo solo combatterla. Se non sto combattendo nessuna battaglia, perché non mi è stato permesso di capire che c’è una battaglia e che vale la pena di battersi, il mio senso del sé gira a vuoto come una trottolina inutile e sempre più priva di forza e un certo punto questa trottolina si fermerà e cadrà su un fianco: è quello che si chiama depressione. La fede se stessi nasce dalla religione, nasce dall’etica, dal non sentirsi inadeguati. Gli indiani evidentemente, sospesi su una civiltà tecnologica che non sentono ancora loro, hanno un problema di identità, che combattono sdraiandosi sui binari, con l’uso romantico e incosciente della tecnologia. I russi non si sono ancora ripresi da non essere più l’odiata e amata Unione Sovietica, anche lì è evidente un problema di identità. E allora? E allora la trottolina la si tiene in moto disperatamente per esempio con i like di Facebook, che diventano una dipendenza. Anche la relazione con gli altri è fondamentale. Gli altri non esistono più. I congiunti sono scomparsi, si sono estinti e nemmeno le autocertificazioni covid sono riusciti a rianimarli. Non ci sono più cugini, non ci sono più vicini di casa, ognuno è sradicato e isolato col suo cellulare in mano. Atei e soli: come resistere al like? Cosa altro potrebbe riempire la cavità dolente che ho nel cuore.
Come si fa ad essere ammirati? In passato ognuno era ancorato al suo gruppo: la famiglia, il quartiere, il villaggio. Non c’era un villaggio globale. C’era un banale villaggio locale. Per essere amati nel banale villaggio locale bastava fare cose facili: essere gentili, dire buongiorno, non prendere a calci i gatti dei vicini, per il compleanno fare una torta e offrirne una fetta in giro. Ora il villaggio locale è stato annientato. Non è più la vita dei santi che ci affascina, ma quella di Chiara Ferragni. La famiglia se c’è è striminzita: ci siamo fatti fuori cugini, cognati e spesso anche fratelli. Non sappiamo i nomi dei condomini e li incrociamo solo per scannarli alle riunioni condominiali, abitiamo lontano dal posto di lavoro. Non c’è nessun nucleo che possa raccogliere la nostra gentilezza e restituire un sorriso. Quindi occorre affrontare il villaggio globale: come si fa a ottenere ammirazione? Ci sono sistemi semplici: scrivere un best seller, essere un attore famoso, scoprire la cura per il cancro, essere un calciatore invincibile. E qui restiamo sul facile. Se per qualsiasi motivo nessuna di queste quattro cose riesce bene, c’è sempre la possibilità di diventare un influencer, che un tizio che non ha fatto un fico, non ha scoperto la cura del cancro, non ha vinto le Olimpiadi, meno che mai il premio Nobel, semplicemente ha tanti like e i produttori di scarpe lo pagano per portare il loro modello. Come resistere alla tentazione? Il like e la nuova religione, il nuovo credo, la nuova necessità, la nuova patria, la nuova causa per cui combattere e, se necessario, morire. Questi trecento morti sono la punta di un iceberg. È anche nella guerra ai like vale la regola che vale in qualsiasi guerra: a ogni morto corrispondono circa una ventina di feriti gravi e un migliaio di feriti leggeri. Se, “solo” poche centinaia di persone si uccidono per scattar su una foto, quelli che si fanno male dell’impresa sono un numero molto più grande. Quelli che si fanno male fisicamente, e poi tutto il tragico danno alle vite. Quanta importanza è data a internet, a fb, a you tube? Il nuovo oscuro potere è GAFA, google, amazon facebook e apple. Tutti nati nella Silicon Valley tuti figli di un impasto di sotto cultura hippie e informatica tutti con i loro vestiti informali e l’idea del villaggio globale di cui loro sono sacerdoti. C’è un altro dato da aggiungere a questi 300 morti: tutti i bambini che hanno incidenti mentre il loro cavegiver, cioè la persona che avrebbe dovuto guardarli e magari anche parlare loro giocarci insieme stava guardando i social. Qui qualche altro centinaio di morti li abbiamo. E poi ci sono i bambini che nessuno guarda perché tutti guardano il cellulare, e ci sono le vite che non vengono vissute perché 5, 6, 7 ore al giorno vengono passate sui social.
Questi morti quindi sono le prime vittime sacrificali del nuovo moloc, GAFA. E sono anche il sintomo di un’altra voragine. La vita non è più sacra. Abbiamo cominciato con l’aborto del malformato, poi siamo passati all’aborto del sano, abbiamo cominciato con l’eutanasia del malato terminale, poi del malato cronico poi del sano,
La vita non ha valore. Noi siamo una cultura di morte.
Ritorniamo alla buona battaglia.