Enrico Maria Radaelli: Antonio Livi.
Antonio Livi.
L’ultimo Filosofo della Scuola Romana.
Il primo Romanziere del Sensus Communis.
di Enrico Maria Radaelli
4 marzo 2003. Mattina solare di sfolgorante primavera romana. « Enrico Maria! – mi apostrofò perentorio Monsignore con la sua secca voce dal chiaro accento tosco-pratese – organizzati velocemente per tenermi tre belle lezioni propedeutiche all’estetica di san Tommaso. Le terrai nel pomeriggio, a sostegno dei miei corsi di filosofia della conoscenza, e poi le svolgerai due volte la settimana per tutto il corso dell’anno ».
Stavamo scendendo la breve gradinata che si allarga dall’ampia facciata della Pontifica Università Lateranense ai bei giardini antistanti, e il professor Livi, col suo consueto berretto simil-cosacco di una bruttezza senza tempo ben calcato sui capelli brizzolati, non si fermò neppure un attimo, ma, con leggera (e inaspettata) pacca sulla spalla, continuò senza dar mostra di accorgersi della mia espressione stupefatta (poi vedremo perché): « Tu conosci bene san Tommaso. Raccogli dunque tutti i riferimenti di gnoseologia estetica presenti nella sua Summa Theologiæ: mi darai man forte a inculcare nei nostri studenti la vera metafisica tomista e a sradicare le orrende falsità degli Umberto Eco, dei Vattimo, dei Coda, dei Ravasi e di tutti i nemici di Dio, fuori e dentro la Chiesa che siano ».
Questo era Antonio Livi. Un autorevole e deciso uomo di Chiesa che non aveva quel che si chiama rispetto umano, e che aveva abbracciato da sempre, in una specie di commovente compenetrazione con la divina Verità, una sola direttiva: “Amicus Plato, sed magis amica Veritas”: “Platone mi è amico, sì, ma più amica mi è la verità”.
Sicché, identificando verità col Logos divino, l’antico motto si fa unica e precisa Polare a guidare con fermezza e splendore ogni tragitto spirituale, ogni percorso intellettuale del professore di Prato nel mare magnum della sua ricerca filosofica, e mal gliene incolse, perché nel secolo modernista in cui Dio lo aveva buttato a vivere, don Antonio, come veniva chiamato dagli intimi, dovette lottare come un leone per non soccombere sotto i colpi delle soverchianti schiere avversarie.
Stupore, dicevo, perché Antonio Livi la sua filosofia l’aveva costruita all’ombra, tra l’altro, proprio del Gilson, che era uno dei suoi Maggiori, e fin da subito i nostri incontri erano stati costellati di brevi ma intensi e vivaci duelli all’arma bianca sul conteggio o meno del mio amato pulcrum nel fiorito cestello dei sacri trascendentali, pulcrum, che notoriamente il pregevolissimo ma rude Francese invece rigettava, e il Pratese con lui, per un’aspra sovrapposizione col prepotentissimo bonum mangiatutto, finché un giorno, passeggiando amenamente nei giardini filosofanti del bel Collegio Rosmini in quel di Stresa, dove ci si trovava per una sua conferenza su Michele Federico Sciacca, fu proprio don Antonio a tirar giù una bella sciabolata di quelle che ci volevano, dall’alto in basso, a dividere per sempre quei due eccelsi “fratelli-coltelli” che da secoli troppi e troppo eminenti autori ed esegeti avevano erroneamente sovrapposto e confuso assieme.
« Enrico Maria – e ormai sapevo che quando partiva così, il mio Tutor mi stava per dire qualcosa d’importante –, è vero che “pulcrum et bonum convertuntur”, come insegna la Bibbia in Genesi 1,31: “E Dio vide che le cose fatte erano belle/buone”, e Gilson, come tanti altri esegeti, ha unificato le due azioni a favore della preponderante, bonum, dando allo sguardo, qui quello di Dio, una valenza possessiva; ma, alla fine, una cosa è possedere, altra contemplare. Basta: prima contempliamo, poi possediamo. I due trascendentali vanno divisi, e quell’esegesi di Genesi 1,31 va benissimo, ma distinguendo i due corni secondo due ben diverse prospettive: ne parleremo ».
Questo è Mons. Livi: un coraggioso che ti attanagliava con le sue argomentazioni stringenti e appassionate, capace di rompere e farti rompere con le convinzioni più solide, se messe alla luce di qualcosa che prima non era stato sufficientemente considerato.
Ed è proprio sotto questo punto di vista che va considerata la sua scoperta più dirompente, che spargerà la sua fama in tutto il mondo e in tutte le lingue più di ogni altra qualità che indubbiamente possedeva, p. es. d’essere un maestro di oratoria capace di tenere sveglio, anzi sospeso l’uditorio con battute salaci, toscano verace com’era, pungente e ironico senza mai dirottare in fangosi istrionismi, o di far partire ovazioni a scena aperta per qualche saetta sprigionata in corsa dalla faretra a ciel sereno, come dire: e chi se l’aspettava?
E allora, qual è questa gran scoperta? I libri di saggistica più rilevanti del secolo scorso sono tre: due sono di Amerio, di Romano Amerio, uno è di Livi. Ma il più importante dei tre, e lo dice uno che Amerio non si può dire che non lo conosca, è quello di Livi.
Iota unum e Stat Veritas li conosciamo: il primo è l’inarrivabile scrigno in cui si trovano niente po’ po’ di meno che le due chiavette segrete – ma lo stesso Amerio non se n’era accorto – che avevano permesso ai Modernisti di forzare nottetempo le porte della Chiesa e irrompere nella Città santa mettendola a soqquadro senza che nessuno se ne accorgesse e anzi facendosi passare per santi, e ci caddero tutti; il secondo è il libro che osa prendere di petto un’Enciclica papale del calibro di Tertio Millennio adveniente per denunciarne l’estrema ereticalità su tutta la linea, primo e unico saggio che azzardi tanto contro il magistero di un Papa, e di che Papa, ma magistero peraltro non infallibile, non indefettibile, quindi criticabile, e per l’appunto eretico.
Ma di un libro come quello di un professore di logica e di gnoseologia, dall’esposizione strettamente scientifica, dal lessico per iniziati, che possa assurgere a “più importante saggio del secolo”, a cosa mai si potrebbe pensare? Come si intitola mai questo tal libro?
Un titolo più asettico, piatto e difficile non si poteva trovare: Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, editato nel 1990 da Ares, ma poi, interamente rielaborato, rieditato nel 2010 dal suo stesso autore nei tipi della sua Casa editrice, la Leonardo da Vinci, che aveva dovuto aprire per poter pubblicare il proprio pensiero in libertà, posto che il suo percorso si stava facendo sempre più controcorrente rispetto a quello sempre più modernista e filo-liberista della Chiesa ufficiale, come ben sappiamo: altra scelta coraggiosa e impegnativa al massimo.
E infatti ancora questo è Monsignor Livi: un uomo di Chiesa ardentemente tensioattivo, un uomo di fede e di pensiero non disposto a compromessi, un filosofo tutto aggettato sul futuro dopo essersi ben assiso sulle spalle di un gigante, di uno speciale gigante scelto da sempre a fargli percorrere la strada della vita.
E chi è stato mai questo gigante dall’incedere forte, scelto da un cuore così tosto e audace? Ma come, non lo si è ancora capito?
È Cristo Gesù, il Logos divino, e altri non ce n’è. Antonio Livi su questo è sempre stato netto: il Logos, dunque la religione, il Cristianesimo, e precisamente il Dogma che lo sottende, è il punto di riferimento del pensiero dei popoli, della filosofia e della teologia quali che siano, e da lì, poi, di tutto, perché è dalla filosofia che nasce tutto, nel bene e nel male, ossia nell’obbedienza e nella ribellione agli insegnamenti divini, ed è attraverso i percorsi del pensiero che lentamente prendono forma i fatti del mondo, la storia delle civiltà in tutte le sue dimensioni, ed è così, attraverso la ricerca dei fondamenti del pensiero dell’uomo che il Nostro giunge presto a scoprire, sui monti più impercorribili, in una conca sperduta da millenni, la preziosa sorgente delle sue ardimentose peregrinazioni, e così scopre che la polla delle acque che daranno vita, potenza e il più torrenziale flusso alla grande cascata della santissima Rivelazione divina, sono due.
Sì: “La sorgente sono due”. Bisogna imparare a dire così. Siccome il Logos prepara, come sappiamo, la Sua misericordiosa Rivelazione con i debiti accorgimenti, Livi si accorge che non solo Egli dà vita a quella gran “Città filosofica” che sono i classici Præambula Fidei che tutti abbiamo imparato a riconoscere in Atene, tanto che grandi Padri orientali come Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nisseno e altri erano sicuri che i grandi Greci come Epicuro, Socrate, Platone e Aristotele giacessero negli Inferi, accanto ad Adamo e a tutti i Patriarchi, anch’essi in attesa della liberazione di Cristo, avendo proprio loro posto le basi metafisiche alla comprensione e al riconoscimento veritativo – Livi avrebbe detto “aletico” – del Suo divino Messaggio, ma, prima ancora: fin dai primordi dell’umanità, fin dalla creazione del primo uomo dal fango, la Sapienza divina infonde nella mente della sua creatura più amata, cioè in tutti i miliardi di menti di tutti i miliardi delle sue più amate creature, una ad una, quello che Livi chiamerà Senso comune, Sensus communis, il sistema organico di cinque certezze incontrovertibili, assolute, di cinque sicurissimi e incontrovertibili “giudizi di esistenza” la cui negazione è per l’appunto impossibile perché, e qui arriva il bello, sono acquisizioni dell’esistenza di fatti reali, oggettivi, che ogni mente di ogni uomo, anzi di ogni bambino riceve e sedimenta nel proprio intelletto, in tutta semplicità, prima ancora di ragionare, prima ancora di chiedere i primi “Perché?”, ma quasi succhiando il latte dalla mamma, che egli sia Simon Pietro o Immanuel Kant, Aristotele o Cartesio, il più dimenticato pargoletto delle isole Samoa o Andy Warhol, Tonietto Livi o Piergiorgino Odifreddi.
E qui bisogna a questo punto capir bene la situazione: quando un uomo di Chiesa impegnato h24 su tutte le linee del fronte a trovare le frecce più adatte per trafiggere gli argomenti avversari, e sa di avere a disposizione solo il ridicolo spazio della propria miserabile vita, sapendo che la più parte della propria giornata è girata ai mille impegni di professore di ben due Corsi accademici, poi di Decano di Facoltà, poi di ricerca filosofica e teologica, per non dire poi delle ore di preghiera, di meditazione, di raccoglimento spirituale, persino di Pastore, ecco: e non ho detto niente, ma quando un uomo così – un uomo di Chiesa così! – si butta anima e corpo in un’unica impresa e intorno ad essa è capace di raccogliere anche uno stuolo di infervorati e vivaci accademici da ogni parte del mondo, lingue e culture e farne una scuola, l’International Science and Commonsense Association (ISCA), capace di imporsi sul mondo filosofico e accademico con libri, riviste, seminari, discussioni, ecco: tutto ciò significa che allora quella scoperta è davvero grandiosa, è davvero di importanza primaria, è una scoperta che bisognerà far di tutto perché si imponga al mondo, e questo solo perché, essendo il Pratese un vero uomo di Chiesa, un ancor più vero uomo di Dio, a Dio vada maggior gloria, in questo caso la maggior gloria di riconoscergli di aver davvero donato all’uomo, Lui, tutti gli elementi per potersi far riconoscere, individuare, scoprire da quel testone da Lui pur creato, e poi tutti gli elementi per farsi da lui amare, amare, amare.
Questo è precisamente il motivo per cui dico che Filosofia del senso comune è il saggio più importante del secolo passato, superiore a ogni altro quale che sia pubblicato nel mondo: perché ha compiuto a Roma, nel XXI Secolo, ciò che quei venerandi sunnominati Greci compirono venticinque secoli prima ad Atene: quelli aprirono infatti a Ierusalem le porte della Metafisica in modo che tutti gli uomini che avessero poi creduto nella Redenzione donata dal sangue di Cristo potessero fondare la propria fede sulle più solide basi del pensiero umano – Livi ricordava a tutti i suoi discepoli e ascoltatori che non c’è niente di più realistico della Metafisica –; allo stesso modo, con la stessa potenza, questi apriva a Roma, alla Nuova Ierusalem, le immense porte dell’universalità di ogni possibile fondamento epistemico, che è a dire che apriva alla Chiesa, a tutta la cristianità, al mondo, le grandi e semplici porte del fondamento di tutti i fondamenti di ogni possibile pensiero umano, che esso fosse logico, scientifico, emozionale, dottrinale, di fede, tutto.
E uno dice: ma guarda che stramberia! Com’è mai possibile che Dio doni al mondo una cosa tanto preziosa e necessaria quale di certo è il ‘fondamento di tutti i fondamenti’, cioè la base su cui si può sviluppare ogni discorso umano quale che sia, a duemila anni di distanza dalla Sua Rivelazione, e ad altre migliaia d’anni dalla Sua Creazione?
Un altro po’ che aspettava e ce la dava al Giudizio Universale.
Ma è proprio qui lo splendore dell’infinita tenerezza, dell’ultra lungimiranza, della squisita provvidenza di Dio: nella scelta oculata fin nell’infinitesimale di tempi, luoghi, popoli e persone, per cui avviene che, a contrastare l’inopinata, inarrestabile e violentissima invasione del relativismo sbocciato in ogni parte del globo con la velenosa e dirompente fioritura di tutte le più ereticali ideologie post-cartesiane, che con i loro falsissimi cortocircuiti dialettici hanno creduto persino di seppellire l’inseppellibile e santa Metafisica, era necessario che si alzasse proprio in Roma, proprio nella seconda e definitiva Ierusalem, proprio dal cuore della Cristianità, la pietra capace di rinsaldare su se stessa, vasta e solida come nessun’altra, ogni altra pietra che viene edificata dall’uomo per costruire i propri ragionamenti, le proprie “Città filosofiche” su cui poi costruisce le proprie città vere e proprie.
Quelli di Cartesio, Kant, Hegel, Marx, Heidegger, Nietzsche, Adorno, Habermas eccetera, e, da costoro, di Giordano Bruno, Lutero, Calvino, Teilhard de Chardin, Ranher eccetera, sono tutti dei complessi e nascosti dialleli, delle petizioni di principio, filosofie accartocciate su se stesse, e questo perché, ognuno a suo modo e con un tutto proprio impercorribile percorso, non raccolgono tutti e cinque i dati primigeni depositati in ogni bambino del mondo, essi compresi, essi in primo luogo, prima che poi si sviluppi ogni successivo ragionamento, ossia nell’età prerazionale e prescientifica, in quello che Livi, nel suo Dizionario storico della Filosofia, voce Senso comune, così definisce: « Un sistema organico di certezze universali e necessarie nel quale sono comprese le certezze relative 1), all’esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; 2), all’esistenza dell’io come soggetto; 3), all’esistenza degli “altri” come propri simili; 4), all’esistenza della “legge morale naturale” come rapporti personali di responsabilità; 5), all’esistenza di Dio in quanto fondamento razionale della realtà, ossia come prima Causa e ultimo Fine di tutte le esistenze viste ».
Monsignor Livi era ben consapevole della forza dirompente della sua scoperta, ed era presto riuscito, con la collaborazione attiva di tutti i suoi discepoli e di tutti gli ottimi accademici che avevano saputo rispondere entusiasticamente alle sue chiamate, a far riemergere dai più profondi sedimenti della storia della filosofia la presenza o almeno i primi abbozzi di coscienza di questo fondamento universale, così da poter sbaragliare anche sul fronte storico-esistenziale le contrarietà dei senza Dio, perché di questo fondamentalmente si tratta: della lotta senza quartiere tra credente e miscredente, tra Dio e satana, e di questa lotta il Nostro era ben consapevole, ed è per questo che andava intimamente fiero di aver contribuito non solo strutturalmente, ma quasi parola per parola alla stesura dell’Enciclica Fides et Ratio, chiamato alla pesante responsabilità proprio lui, e proprio per i suoi sempre più riconosciuti e apprezzati meriti di ricercatore, dallo stesso Giovanni Paolo II, da cui poi sarà difficile e sanguinoso separarsi, proprio perché con quelle pagine tanto chiare e potenti egli aveva trovato in quel Papa muscoloso una sollecitazione davvero notevole a innalzare una muraglia, anzi a elaborare vere e proprie secche e lucide batterie di contrattacco verso gli agguerriti negatori di Dio, verso quei dominatori vittoriosi ormai su tutti i fronti, come sappiamo, persino all’interno della Chiesa, nelle sue sfere più alte e centrali.
Dunque tra Livi e il magistero contemporaneo della Chiesa erano ancor ben saldi e vivi i più forti legami, tanto appunto da essere chiamato dalla cerchia più stretta del Pontefice regnante a redigere la bozza di un documento col quale il Santo Padre voleva impegnarsi in prima persona sul piano filosofico a rimettere in carreggiata la razionalità umana proprio legandola come solo Livi avrebbe potuto alle ragioni della fede. In realtà, questi legami presupponevano che però anche da parte del Pratese ci fosse un’adesione incondizionata al magistero che tanto lo stimava, e non a caso la sua densissima vita accademica si andava a concludere alla Lateranense, ossia proprio nell’ “Università del Papa”, se ciò significa ancora qualcosa.
Ma, come ho detto, quel gran ciclopico nano, chiamiamolo così, ben assiso com’era sulle robuste spalle del suo divino Gigante, non si lasciò abbindolare fino alla fine dalle sirene stregate delle pur potenti, potentissime voci che risuonavano da cinquant’anni nella Chiesa, nelle sue università, nei suoi cenacoli, nei suoi larghi e frequentatissimi simposi correndo per il mondo in tutte le lingue, volando alte sopra cupole, guglie, cuspidi e campanili; ma pian piano, proiettato com’era ad abbracciare sempre e solo il tre volte suo Amico, il Logos, il Logos, il Logos, dopo aver lastricato gli ultimi secoli della strada dell’alta filosofia contemporanea e dell’alta teologia che ne derivava con quel volume imperdibile che è Vera e falsa teologia, improvvisamente cambia registro, e si avvede, con tutta probabilità proprio nell’ultima stesura del lavoro, della scellerata marcatura ereticale impressa dal Concilio, e con una vera e propria inversione di rotta a U che gli causerà subito altre e molte grandi inimicizie, solitudine, contrasti e rotture serrate, si sporgerà nell’ultimo aggetto, perché con don Livi, trenta od ottant’anni che abbia, non c’è niente da fare: “Amicus Plato, sed magis amica Veritas”, sicché sarà forte per tutti lo stupore, ma non per chi lo conosceva bene, quando il 2 gennaio del 2018 Sandro Magister pubblicherà sul suo blog Settimo Cielo un articolo del rinomato Professore che, per la sua rottura, una volta avrebbero chiamato una bomba al fulmicotone. In realtà, se avessero avuto il coraggio di stamparlo su carta, sarebbe stato un’atomica. Ma, potenza della comunicazione, come dice McLuhan, il mezzo è il messaggio, e se il mezzo è il silenzio, il messaggio non c’è.
Tanto per render l’idea, questo l’incipit: « Ritengo che sia indispensabile, nell’attuale congiuntura teologico-pastorale, tener conto di quanto ha esaurientemente dimostrato Enrico Maria Radaelli nel suo ultimo lavoro (“Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo”, Edizioni Pro-manuscripto Aurea Domus, Milano 2017), ossia che l’egemonia (prima di fatto e poi di diritto) della teologia progressista nelle strutture di magistero e di governo della Chiesa cattolica si deve anche e forse soprattutto agli insegnamenti di Joseph Ratzinger professore, che mai sono stati negati e nemmeno superati da Joseph Ratzinger vescovo, cardinale e papa ».
Di fatto, questo è stato il suo ultimo lascito. No: quasi l’ultimo. Un’adesione incondizionata, commovente, totalizzante, come suo solito, alla realtà, anche se ciò comportava, si capisce, una denuncia altrettanto incondizionata, severa, regale, dei falsi convincimenti imperanti, di quelli che Foucault o Eco avrebbero chiamato senza tante storie sovrastrutture del pensiero, di quelli che in verità non sono altro che morbidi pensieri per dormire tra due guanciali, ossia convenienze, utilitarismi, e che lui stesso, nel suo Vera e falsa teologia, aveva definito senza ambasce un vero e proprio machiavellico utilitarismo, di tutto un mondo ecclesiale – e non da poco: parliamo del mondo della Chiesa più ufficiale e regnante – abbarbicato da più di mezzo secolo a personalità ideologicamente segnate da errati filosofemi, teologumeni e ammaestramenti che hanno uno e un solo pregio: sono promettenti, tolgono ogni pensiero, sono pacificanti come non è la santa dottrina cattolica: niente diavoli, niente peccati, niente castighi, niente Inferno, niente punizioni, ma solo tanta gioia per tutti, il Paradiso, l’abbraccio con Dio.
Eccolo il suo vero, ultimissimo lascito: inaspettato, personale, universale, diretto.
Venuto a Milano per essere operato, lo incontrai nel mese di giugno, dopo una severa operazione che gli asportava una terribile massa tumorale dall’emisfero destro dell’encefalo, nella stanza in cui si trovava all’ospedale Humanitas.
« Enrico Maria – quasi mi gridò dal letto, guardandomi fisso negli occhi –, dogma, dogma, dogma. Vaticano I sì. Vaticano II no. Hai capito? Scrivi: dogma, sì. Vaticano I, sì. Vaticano II no, no, no. Scrivilo a tutti, scrivi bene. Questa è la Chiesa. Questa. Solo questa ».
Lo incontrai due volte, a distanza di una settimana. Mi disse tutte e due le volte la stessa cosa. Quasi le stesse parole. Sono state le ultime parole lucide che pronunciò. Stava per presentarsi all’Angelo del Signore, lassù, alle porte d’oro. E lo sapeva. E ne era felice, perché ora era pronto: aveva fatto e detto tutto quello che il Logos, la sua splendente Polare, gli aveva chiesto. No: gli aveva comandato.
È morto, come sappiamo, il 2 aprile 2020, alle 13,30, in un ospedale di Santa Marinella. Con i sacramenti, ben inteso.
Che Dio lo accolga come merita, Suo invitto testimone. Amen.
Enrico Maria Radaelli
Professor Enrico Maria Radaelli
Director of Department of æsthetic Phylosophy
of International Science and Commonsense Association (Rome)