Psicochirurgia.
Possiamo definire psicochirurgia una chirurgia fatta per motivi psichici, cioè mentali. Ovviamente, la chirurgia sicura al 100% non esiste come non esiste l’anestesia senza rischi. La chirurgia è sempre un danno biologico e l’anestesia pure, quindi la psicochirurgia è sempre un infliggere una malattia a un corpo sano, una violazione della regola di non nuocere, che non è annullata dall’eventuale consenso. Gli esempi più clamorosi, e ovviamente disastrosi, di psicochirurgia sono la chirurgia estetica, la lobotomia, le mutilazioni sessuali femminili e il folle intervento demolitivo definito con dissennato eufemismo «riassegnazione del genere», perché il sesso non può essere riassegnato.
La chirurgia plastica è una chirurgia complessa e difficile nata per curare gli ustionati, gli sfigurati, le persone con deformità, origina dal nobile intento di ricreare parti del corpo distrutte, ridare un viso agli sfigurati, un seno a chi ha dovuto subire una mastectomia. Poi, però, degenera nella follia di interventi di plastica mammaria fatti a sedicenni, magari regalati per la maturità o in assurdi interventi per cancellare le rughe e immobilizzare il viso.
Qualcuno si è fatto trasformare in drago, qualcun altro ha affrontato decine di interventi per essere il più possibile simile alle bambole Barbie o Ken (che, a loro volta, sono parodie). Molti attori di Hollywood hanno combinato questo disastro e sono inguardabili. Perfino i pochi che, dopo vari interventi plastici, sono guardabili hanno commesso l’errore di non accettare la propria età e il proprio corpo.
La clitoridectomia e l’isterectomia – mutilazione sessuale e asportazione dell’utero – sono stati usati negli Stati Uniti attorno all’inizio del secolo scorso per curare l’isterismo e il brutto carattere, pare con risultati mediocri. Anche le mutilazioni sessuali femminili attualmente in uso in nazioni sempre a prevalenza islamica sono anche da considerare una forma di psicochirurgia, certo un po’ ruspante, ma degna del nome. L’idea di organi sani asportati è semplicemente mostruosa.
Psicochirurgia è anche la lobotomia. Ne parla diffusamente nel suo dolente libro Paper Genders. Il mito del cambiamento di sesso (editore SugarCo) l’ex trans Walt Heyer. La tecnica, dopo varie modifiche, si semplificò e poteva essere eseguita in pochi minuti anche ambulatorialmente. Walter Jackson Freeman, (il neurologo statunitense famoso per aver promosso la lobotomia n.d.r.) raccomandava tale procedura anche ai pazienti con sintomi lievi ed egli stesso la praticò su migliaia di persone, anche reduci della seconda guerra mondiale.
Insieme al neuropsichiatra James Watts, avevano messo a punto una tecnica con il punteruolo chirurgico – una sorta di rompighiaccio detto orbitoclasto – che trapassava lo strato osseo appena al di sopra della palpebra raggiungendo i lobi frontali. Una volta entrato, veniva mosso energicamente in maniera oscillatoria al fine di danneggiare il lobo frontale.
L’intervento si faceva da svegli, il dottore domandava al paziente di contare al contrario e quando il paziente non era più capace, ci si fermava. I problemi psichiatrici del malato erano risolti ma, molto spesso, dopo l’operazione non era più capace di andare al bagno da solo (a volte anche di accorgersi di questa necessità), ma era più gestibile.
All’inizio, fu praticata solo su pazienti molto agitati come alternativa alla costrizione fisica, dopo fu estesa a un enorme numero di persone con indicazioni assurde. Con l’avvento dei neurolettici come la clorpromazina, la lobotomia fu abbandonata.
Tra i casi più celebri Rosemary Kennedy, sorella del presidente, che aveva un lieve deficit cognitivo dalla nascita e un interesse per l’altro sesso molto vivo, che poteva essere un problema per i sogni politici della famiglia perché avrebbe potuto creare scandalo. Il padre la sottopose all’intervento all’insaputa della madre e il risultato fu un individuo incontinente che viveva fissando le pareti.
Rientrano nella psicochirurgia anche i cosiddetti interventi per il cambiamento di sesso che, in realtà, non esistono. Esistono interventi lunghi, dolorosi e complessi – gravati da molti rischi – di apparente cambiamento di sesso. Ai molti rischi medici, chirurgici e anestesiologici si aggiunge anche quello del suicidio.
Molte persone che hanno combattuto per anni con la convinzione che il cambiamento (apparente) di sesso avrebbe loro dato la serenità, quando si sono rese conto che non è stato così, quando hanno iniziato a rimpiangere il proprio vero sesso, hanno pensato anche a togliersi la vita.
Ne parla lo stesso Walt Heyer nel libro Paper gender. Riporto le sue parole raccolte in un’intervista: «È giunto il momento di mettere a nudo l’inganno: gli interventi chirurgici di riattribuzione del sesso non fanno altro che peggiorare la vita di chi vi si sottopone. L’ho imparato a mie spese e non posso che essere vicino alla sofferenza dei transgender, ma un atteggiamento di comprensione non basta: è necessario un supporto psicologico e psichiatrico che li aiuti ad affrontare i loro problemi. È pura follia continuare ad avallare una procedura chirurgica, fallimentare e causa di grandi sofferenze, come risposta a un disturbo che è di natura psicologica. Prendo la parola a partire dalla mia esperienza personale per far conoscere la sofferenza, spesso sottaciuta, che segna la vita di molti transgender. Ci sono vite devastate per la mancanza di un supporto psicologico adeguato. Molti terapeuti non sanno o non vogliono esplorare le problematiche legate all’infanzia. Non è accettabile che si ignorino deliberatamente fattori che sono frequentemente alla base dei disturbi psicologici responsabili dell’incredibile tasso di suicidi tra i transgender: il 30%. Da ex-transgender mi rendo conto di quanto sia importante passare dai fallimenti del trattamento chirurgico di riattribuzione del sesso a trattamenti psicologici che possano avere maggiore efficacia. L’idea che il fenomeno transessuale abbia una base biologica è scientificamente infondata».
Ecco, invece, quanto ha scritto nell’articolo My New Vagina Won’t Make Me Happy (La mia nuova vagina non mi renderà felice) pubblicato sul New York Times il 24 novembre 2018, il transessuale Andrea Long Chu nell’imminenza dell’intervento erroneamente chiamato vaginoplastica, perché la vagina non può essere imitata o costruita. Essa è un canale estremamente complesso e quello che si ottiene chirurgicamente è una problematica tasca a fondo cieco.
La traduzione è presa dall’ottimo blog di Sabino Paciolla. «Giovedì prossimo, mi faranno una vagina. L’operazione durerà circa sei ore, e sarò in convalescenza per almeno tre mesi. Fino al giorno della mia morte, il mio corpo considererà la vagina come una ferita; di conseguenza, richiederà un’attenzione regolare e dolorosa da mantenere. Questo è ciò che voglio, ma non c’è garanzia che mi renderà più felice. In realtà, non mi aspetto che lo faccia. Questo non dovrebbe impedirmi di ottenerla. Non sono stato sul punto di suicidarmi prima degli ormoni. Ora spesso lo sono…Le passioni negative – dolore, odio per sé stessi, vergogna, rimpianto – sono un diritto umano tanto quanto l’assistenza sanitaria universale o il cibo. Non ci sono buoni risultati nella transizione».
Il dolore può anche essere considerato un diritto umano, ma non da elargire con il denaro del sistema sanitario nazionale. La psicochirurgia viola il dovere della medicina di non nuocere. Gli interventi medici, chirurgici ed endocrinologici, sono lunghi, pieni di rischi e, spesso, molto più spesso di quanto si pensi, seguiti dal rimpianto. Un rimpianto atroce che aumenta fino a 19 volte il rischio di suicidio. Nel disturbo di identità corporea, il paziente desidera che gli sia amputato un arto sano. La legge della medicina è: primo, non nuocere, e quindi non demolire organi sani, non fare nulla che possa generare rimpianto. Questa legge non dovrebbe poter essere violata nemmeno col consenso, meno che mai con denaro pubblico.