Il “diritto di essere uccisi”: verso la morte del diritto.
Per Natale ci hanno fatto uno strano regalo. Grazie alla sentenza Cappato, il suicidio assistito e
l’eutanasia entrano neanche tanto in punta di piedi nel nostro ordinamento. Chiunque abbia la
volontà di voler porre fine alle sue sofferenze dovrebbe avere il diritto di farlo. Detto così suona
logico, in realtà ci sono due parole della frase che sono due trappole mortali. Nel senso letterale del
termine. Una è la parola sofferenza, l’altra è la parola volontà.
Sofferenza e dolore non sono sinonimi, il dolore è una sensazione fisica, mediata dai fasci
spinotalamocorticale, e su cui si può intervenire, sempre, esiste una terapia del dolore ogni anno più
completa e complessa. La sofferenza è invece mentale: la sofferenza per essere malati, o ciechi o
menomati. La sofferenza può spingere a desiderare di morire anche una persona senza menomazioni
fisiche. Le persone amate, che amano e che credono tollerano meglio il dolore e possono risolvere
la sofferenza. È un’informazione biochimica: amando, sentendosi amati e pregando si fabbricano
endorfine che oltre che potenziare il sistema immunitario, leniscono sia sofferenza siae dolore,
come dimostrato dalle enormi statistiche dei neuropsichiatri Seligman e David Servain Shreber. Lo
pneumo oncologo Enzo Soresi nel suo libro Il cervello anarchico riporta di aver personalmente
osservato un fenomeno ben conosciuto: gli effetti benefici sul dolore della preghiera a distanza.
Se non senti nessun amore forte su di te, se nessuno si batte per te, se non credi in Dio, la sofferenza
può essere insopportabile.
La parola sofferenza è una parola trappola perché dà l’impressione di qualcosa di stabile. La
sofferenza può essere curata e lenita. O anche aumentata, dall’indifferenza, dal ricordarti che sei un
peso. Curare e lenire la sofferenza è difficile, richiede tempo ed energia, un tempo infinito che non
lascia spazio a niente altro, un’energia smisurata che solo una persona con un forte equilibrio e a
sua volta sostenuta può dare. Richiede competenze tecniche che non si improvvisano. Ho visto
all’opera “lenitori” di sofferenza, ricordo i Comici Camici, bravissimi psicologi che travestii da
clown consolano i bambini dei reparto oncologico dell’Ospedale Bambin Gesù e i loro genitori, che
mi spiegavano come la priorità sia, sempre, contenere la collera. Ho il rimpianto di essere stata una
pessima figlia e un pessimo medico nell’agonia sia di mio padre che di mia madre, lui morto di
cancro al pancreas, lei di SLA, una paralisi progressiva totale. Non avevo equilibrio, in quel periodo
ero ancora atea, gli atei sono degli scorticati, con i neurotrasmettitori a terra, cronicamente annegati
nel vittimismo, non avevo le competenze tecniche per consolare un malato terminale, nessuno mi
aveva spiegato che occorre ripetere innumerevoli volte al giorno che li amiamo e che la loro vita è
un valore immenso ed ero troppo immersa nella disperazione per capirlo da sola. I discorsi sulla
“sofferenza inutile”, nell’ateismo la sofferenza è sempre inutile, i discorsi sulla “necessità logica” di
evitarla sembrano logici, ma non c’è nessuna logica. Un malato deve essere consolato, non ucciso.
L’altra parola trappola è la parola volontà. La volontà umana non è un monolite, ma un riflesso di
luce sull’acqua, cambia di istante in istante, cambia a seconda di chi ci ha parlato come ben sanno i
pubblicitari e gli esperti in propaganda politica. L’istinto di sopravvivenza è un istinto primario.
Voler morire è sempre una scelta parziale, c’è sempre una parte di noi che urla “No, voglio vivere”,
che cerca disperatamente qualcuno che ci consoli, che ci dica, “la tua vita è preziosa, anche così, tu
sei prezioso”. Il paziente che dice “piuttosto che vivere così meglio morire”, in realtà sta cercando
qualcuno che migliori la sua vita, non qualcuno che prenda la dichiarazione alla lettera.
Nel libro Contro L’eutanasia, l’oncologo Lucien Israel, non credente, racconta che nella sua esperienza plirdecennale di oncologo nessun paziente ha mai chiesto l’eutanasia. Nessun paziente la chiede se si sente amato, se sente che il medico tiene a lui. I mezzi attuali ci danno la capacità di contrastare il dolore.
Nel tragitto che il signor Cappato e il signor Fabiano Antoniani hanno fatto insieme fino alla
cosiddetta clinica in Svizzera, in realtà uno squallidissimo appartamento, Cappato ha detto al signor
Fabiano Antoniani che lo amava, che la sua vita era preziosa? Chiunque abbia seguito pazienti
terminali, il signor Fabiano Antoniani non lo era, o anche pazienti cronici e pazienti gravi sa che
quando un paziente dice “voglio morire”, in linguaggio cifrato vuol dire ”vi prego consolatemi,
fatemi sentire amato” Il signor Fabiano Antoniani in seguito a un pauroso incidente stradale era
diventato cieco e tetraplegico. Se mi trovassi nella stessa situazione continuerei ad amare la vita e
continuerei a voler vivere, quindi non mi sembra né logico né inevitabile che il signor Fabiano
desiderasse morire. Il signor Cappato ha ricordato al signor Fabiano Antoniani tutto quello che si
può fare anche in condizioni di cecità e di tetraplegia? Si può amare, si può essere amati, si può
meditare, si può pregare, si può cercare Dio e Lo si può trovare, anzi in condizioni così estreme è
molto più facile trovarlo. Si può pensare la Divina Commedia e, sia pure con lenta e infinita fatica,
la si può dettare. Si può continuare ad amare la musica, la si può ascoltare e si potrebbe, scrivere
musica.. Nelle sue ultime ore di vita, il signor Fabiano è stato in presenza di qualcuno che lo ha
consolato?
Nessuno si faccia illusioni. Finiti i discorsi aulici, dopo le parola autodeterminazione e libertà, ci
sono i quattrini, l’infinito fiume di quattrini che si risparmieranno se le vite dei malati cronici
verranno soppresse. È necessario un fiume di solidarietà umana e di umana simpatia per riempire di
serenità anche le vite dei malati cronici, sono necessari specialisti, terapisti, insegnanti: una fiala
endovena è molto più semplice e dannatamente più economica.
In tutti i paesi dove il suicidio assistito è permesso, si è scivolati con simpatia e rapidità
all’eutanasia del non consenziente, nel giro massimo di un decina di anni, come è ovvio che sia.
Per tutti noi che nei prossimi mesi, anzi nei prossimi anni, scenderemo in campo per difendere il
diritto di non essere ammazzati, è fondamentale conoscere linee teoriche di legge.
Il libro “Il diritto di essere uccisi: verso la morte del diritto” a cura del Prof. Mauro Ronco si pone, a
tutti gli effetti, come un vero e proprio strumento utile per superare con argomenti solidi e ben
motivati le suggestioni e i condizionamenti che da più parti occupano i commenti e le riflessioni su
un tema così delicato.
“La dolorosa questione dell’eutanasia è uno degli ambiti nei quali chi giudica deve essere ben
consapevole dei propri limiti, e deve essere capace di superare suggestioni condizionamenti emotivi
e mediatici”: sin dalla presentazione a cura del Dott. Alfredo Mantovano, vice presidente del Centro
Studi Rosario Livatino, è chiaro l’intento del ponderoso volume, perché noi siamo immersi in
condizionamenti emotivi e mediatici, e tutta questa infernale macchina si muove su
condizionamenti emotivi e mediatici, in un campo dove è necessario al contrario essere lucidi.
L’eutanasia nazista ha aperto la porta al genocidio. La porta all’eutanasia è stata aperta dal suicidio
assistito il suicidio assistito era propagandato da un filmetto, Io accuso, dove una donna malata di
una forma iniziale di un Alzheimer pretendeva la morte e accusava lo stato che gliela negava.
Il principio da cui muovere, come suggerito dall’intervento del Prof. Ruggeri che introduce l’intera
opera, è quello secondo il quale ogni persona, per il mero fatto di essere tale, concorre al progresso
materiale o spirituale della società. Nelle necropoli dell’età della pietra troviamo scheletri che
denunciano patologie gravissime e croniche, e quindi la tenerezza infinita dell’accudimento. La
ruota è probabilmente stata inventata dal padre di un figlio incapace di camminare. Dove le persone
fragili e deboli sono soppresse, la civiltà si ferma. Una volta saltata la diga della sacralità della vita,
tutto può essere travolto. La ricerca medica si fermerà. Perché curare le demenze, le paralisi, la
cecità?
Ogni vita umana, in altre parole, è una risorsa “preziosa e imperdibile” per l’intera umanità. Un
risorsa che ci permetterà di inventare la ruota, oppure più modestamente l’idromassaggio ( fu
inventato da un idraulico, il signor Jacuzzi, per stimolare i figlio cerebroleso) e insegnerà a noi
“forti” la tenerezza e la pazienza.
Il volume può dirsi anche coraggioso, affrontando il tema della “dignità” della persona e chiarendo
tra i tanti aspetti, un comune duplice errore: la dignità della persona, innanzitutto, non si risolve
interamente nella autodeterminazione del soggetto. La dignità è intrinseca a ogni essere umano.
In secondo luogo, non è accettabile confondere il concetto di dignità con il differente concetto di
qualità della vita. La qualità della vita è un concetto che non tiene conto della capacità principe
della creatura umana: l’adattabilità. All’interno di un corpo malato la mente e l’anima si adattano in
nuovi equilibri, che sono incomprensibili a chi guarda da fuori, rinchiuso nel proprio pregiudizio
che nessuna gioia sia possibile.
È stato usato l’urlo di dolore di un uomo disperato, Fabiano, per affermare la menzogna che
esistono situazioni dove solo la disperazione è possibile.
Nel corso dell’opera si rinvengono necessarie critiche ed alcune puntuali riflessioni in ordine alla
Legge 219 del 2017, ovvero normativa italiana in tema di c.d. “DAT”.
Nel volume sono proposte precise osservazioni relative alla tecnica decisoria adottata dalla Corte
Costituzionale, completando e rendendo organico un lavoro sul tema del “fine vita” avviato da
tempo dal Centro Studi Rosario Livatino, con numerosi workshop e, nondimeno, con l’atto di
intervento nel giudizio costituzionale nel quale è stata emessa l’ordinanza n. 207.
L’opera, grazie anche ai contributi, tra gli altri, del Dott. Giacomo Rocchi e del Prof. Luigi
Cornacchia, non si limita alla mera lettura, se pur accompagnata dal richiamo ermeneutico delle
Corti nazionali e delle Corti europee, delle norme interessate e della verifica della loro adeguatezza
rispetto a pretese innovazioni sanitarie.
Viene, infatti, proposta una ricerca delle radici ideologiche della disponibilità della vita umana e
della c.d. autodeterminazione: si ricostruisce in questo modo il filo ideologico e, in senso lato,
culturale che lega il darwinismo ottocentesco, l’eugenismo del XX secolo, alla base di regimi e
prassi totalitari, e l’attuale collocazione dei confini alla vita alla stregua di una pretesa “qualità”
della vita stessa. Il libro è utile per giornalisti e giuristi, ma soprattutto per uomini politici.
Nessuno si faccia illusioni: una volta abbattuta la sacralità della vita, la strada è in discesa. Curare è
più complesso e più caro che accompagnare gentilmente alla morte, con personale sorridente in
stanze deliziosamente tinte pastello. E l’uomo che impedisce a una suicida il suo gesto
abbracciandola sarà condannato per intralcio all’autodeterminazione.
Un ringraziamento al Professor Ronco per questo volume.
Un grazie all’avvocato Davide Fortunato per il suo fondamentale aiuto stesura di questo articolo.